
DI ROBERTO YETI TALPO
La notizia è stata battuta poche ore fa. Ad Oslo, il comitato del premio Nobel per la Pace ha accettato la candidatura del personale sanitario italiano, presentata dalla Fondazione Gorbachev e sottoscritta da chi abbia già ottenuto il prestigioso riconoscimento, l’infermiera americana Lisa Clark, con la seguente motivazione: “Il personale sanitario italiano è stato il primo nel mondo occidentale a dover affrontare una gravissima emergenza sanitaria, nella quale ha ricorso ai possibili rimedi di medicina di guerra combattendo in trincea per salvare vite e spesso perdendo la loro”.
Ricordo le lacrime di un amico medico al telefono, un anno fa, alle due di notte, stremato da un turno disumano. Dilaniato dall’essersi sorpreso a dire quasi soddisfatto, alla caposala di terapia intensiva, “comunichi che abbiamo nove posti liberi”, per poi rendersi conto che quei posti erano stati liberati da nove deceduti. Piangeva in macchina, nella notte lombarda, chiedendomi nel suo veneto stretto “cossa son diventà? Un boia?”
Per molte sere, meglio dire notti fonde, albe, pomeriggi, il telefono squillava e si svuotava, raccontando un girone infernale senza fine. Nessun protocollo terapeutico sperimentato. Provare con l’esperienza a fermare il mostro inaspettato, senza gli strumenti per farlo. Senza mascherine, camici, visiere, guanti, respiratori, e talvolta siringhe e medicine. Tutti promessi ed annunciati da una politica roboante, troppo bloccata da regole asfissianti, da codici assurdi, dallo sfruttamento della pandemia per la propria parte. Mai ha voluto che scrivessi anche solo le sue iniziali.
La stanchezza che ti impedisce anche le cose più semplici. Cadere sul letto vestito, senza neanche mangiare, e così svegliarsi al suono della sveglia per ritornare in ospedale. Le sirene laceranti delle ambulanze, le morgue piene di corpi ed i parenti lontani. Far parlare i ricoverati con le famiglie tramite un telefonino, anche il proprio.
Il Sindaco di Gemona che riceve il corteo funebre dei camion militari, in fascia tricolore, perché quei poveri resti di esseri umani non fossero completamente soli nel loro ultimo viaggio.
Enrico, medico di base in pensione, che rientra in servizio senza un fiato, e senza un solo dispositivo di sicurezza, per senso del dovere. E sua moglie che confessa a denti stretti il suo terrore. Neanche una parola ma quello che è peggio per uno come lui, romano dissacrante per DNA, neanche una battutaccia salvifica.
E M. l’infermiera umbra che nei rari momenti di riposo fa finta di nulla, non racconta, non vuole esporsi, perché è il suo lavoro e basta. Ma i suoi occhi sono cambiati, come quelli dei soldati che sopravvivono alla battaglia, e non torneranno più gli stessi. Sempre in un angolo, in silenzio, per poi scoppiare in una risata quasi isterica alla prima battuta. Pur di sopravvivere.
Con loro, gli autisti delle ambulanze, il personale parasanitario, i volontari, e tutti gli altri in divisa o in borghese. Un abbraccio lungo tutto il Paese che nessuna azione legale sciacallesca potrà mai sporcare.
Non importa se lo otterranno questo premio Nobel, se fossimo una Nazione e non una comunità, come purtroppo un nostro massimo esponente politico la ha più volte definita, non ne faremmo degli eroi da mettere a giacere su un monumento, ma degli esempi di coraggio, coerenza, senso del dovere, rispetto della vita umana, altruismo, da additare senza fanfare, senza indebite appropriazioni politiche, senza tema che tali concetti siano oggi considerati di una sola parte. Perché sono i princìpi di una società sana. E loro ne sono stati e ne sono gli alfieri.
E se oggi la nostra sanità può arginare meglio il nemico, è tutto merito di coloro che per primi lo hanno affrontato, contenuto e compreso. Si muore ancora tanto, troppo, di Covid-19, ma finiti i tricolori, i canti, il pilatesco invocare eroismi, va ricordato che oggi, come ieri e domani, sono ancora tutti li a combattere. Anzi, non tutti, perché, tanti sono i caduti anche tra le loro fila e né loro, né ciascuno delle decine di migliaia di coloro che non ce l’hanno fatta, potranno e dovranno essere dimenticati. Fino all’ultimo.
Ben venga questa candidatura, se la meritano tutta, purché, come disse De Gregori in “Festival”, non sia un altro monumento per dimenticare un po’ più in fretta.
RT2021