IL MURO DI BERLINO – LA PERSONALE ESPERIENZA DI DARIO ROMAGNOLI GIA’ COMANDANTE ALITALIA.

DARIO ROMAGNOLI

Il Muro” (1^Parte

In occasione del ventiseiesimo anniversario  dell’abbattimento del Muro di Berlino  (9 novembre 1989), desidero raccontarvi il mio personale rapporto con il “Muro”, per come l’ho vissuto.
Ero, in quel periodo, primo ufficiale della Compagnia di Bandiera imbarcato su Boeing 727,  pieno di curiosità su tutto ciò di cui, pur avendone letto o fantasticato da ragazzo, avevo finalmente la possibilità di toccare con mano. Circostanza che mi veniva dal mio lavoro che mi aveva consentito, ancora giovanissimo, di accumulare esperienze inusuali e di visitare  moltissimi luoghi in tutti i  continenti.  
Il mio turno di servizio del 26 novembre 1979 prevedeva la partenza da Roma con destinazione finale Amburgo, dopo aver effettuato scali a Milano e Colonia. 
L’avvicendamento (così si chiama il turno di volo assegnato al medesimo equipaggio per più giorni), prevedeva una sosta di riposo nella città anseatica, per poi rientrare a Roma.
Ricorderete che in quegli anni  il confronto fra l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti era molto acceso e i due “Blocchi”, quello occidentale e quello orientale, non si risparmiavano nel cercare l’uno di prevalere sull’altro.
Tutto  era consentito nella guerra fredda, così definita perché non apertamente guerreggiata,  non da meno combattuta con tutti i mezzi a disposizione; con agenti segreti, propaganda, economia e addirittura lo sport.  
Il campo su cui spesso i due “Blocchi” si confrontavano era il suolo tedesco.
Alla fine della II Guerra Mondiale la Germania era rimasta vittima nella disputa sorta subito dopo (secondo alcuni anche prima) la fine della guerra.  Le due potenze vincitrici USA e URSS,  si erano spartite il Paese,  ponendo il confine in coincidenza dei territori che i loro eserciti avanzanti da Est e da Ovest, vittoriosi sulla  Wehrmacht,  avevano occupato. 
Gli Stati Uniti, mi sembra nel 1949, avevano rinunciato alla loro zona d’occupazione passandone l’amministrazione alla neonata BRD, Repubblica federale tedesca.  L’Urss, per tutta risposta aveva consentito (e favorito) nella sua zona d’occupazione,  la nascita della DDR, Repubblica democratica tedesca, il cui motto, tanto per essere chiari e non nutrire dubbi sulla loro collocazione politica, era “Proletarier aller Länder, vereinigt euch!  (Lavoratori di tutto il mondo unitevi !”)
Berlino che si trovava all’interno dell’area d’occupazione Sovietica ma che ospitava simbolicamente anche le forze d’occupazione alleate, venne spartita in quattro zone, la Sovietica, l’Americana, l’Inglese e la Francese.
La DDR il 13 agosto del 1961, per interrompere l’emorragia di tedeschi dell’Est che passavano ad Ovest, attratti dalle migliori condizioni di vita, decise di erigere a Berlino un muro fortificato per impedire altre fughe. Il “Muro”.
Era calata, come ebbe a dire profeticamente  Winston Churchill, una “Cortina di ferro” sulla martoriata città di Berlino, che l’avrebbe divisa per molti anni.
Scusate la lunga premessa, ma queste erano le mie considerazioni quando, quel giorno di novembre, trovandomi ad Amburgo, decisi di preferire una gita a Berlino piuttosto che farmi attrarre dai rinomati e malfamati locali del quartiere a “Luci rosse” della Reeperbahn  di St Pauli.
Secondo un certo passaparola fra gli equipaggi, in quella zona della città portuale si trovava un locale, il nome  mi sembra fosse “La chatte noir”,  in cui si esibivano simpatiche fanciulle, fra queste,  l’attrazione principale era una “Star” che riusciva, penso con un severo allenamento dei muscoli pettorali, a far roteare i seni sia in senso orario che anti-orario e miracolo, anche in senso controrotante gli uni dagli altri (quando si dice il talento!), il tutto con grande divertimento degli spettatori che guardavano con ammirazione la curiosa prestazione arricchita da due maliziose nappine che attaccate all’unico appiglio possibile,  esaltavano lo spettacolo, per così dire, rotatorio.
A questo proposito, devo, aprire una parentesi. 
Amburgo, come tutti Paesi europei minimamente evoluti, era molto più tollerante nei confronti del sesso di quanto fosse l’Italia preda nel dopoguerra della Democrazia Cristiana, dell’Azione cattolica, di beghine e sepolcri imbiancati vari.
Vi erano ovviamente delle  variazioni sul tema: ad esempio in Inghilterra era permesso lo spogliarello ma le ragazze una volta “Nature”, dovevano restare immobili ( il divertimento era quello di creare dei diversivi per farle muovere; loro stavano al gioco e si muovevano). Oppure in Francia, dove la tradizione aveva trasformato lo spogliarello in un grande spettacolo artistico e dove gli italiani si affollavano numerosi nei locali di Pigalle e degli Champs Elysees. In Germania, diciamolo pure, in assonanza con il concreto carattere nazionale, gli spettacoli andavano al sodo senza tanti complimenti né tanti sensi di colpa.
Il giorno dopo il mio arrivo, non senza un certo sacrificio (se non obbligato, la mia natura mi porta a svegliarmi con comodo),  andai alla stazione per prendere un treno che mi avrebbe portato a Berlino. 
Inutile dire che il treno partì perfettamente in orario.  Immerso nei miei pensieri e con ancora vivo il ricordo della frase pronunciata da Kennedy, “Ich bin ein berliner” ,  mi trovai a passare il confine tra la BRD e la DDR.
Il treno si fermò solo pochi secondi  alla stazione di confine. Il capo-stazione, (una bellissima ragazza con i capelli biondi lunghi, mossi dal vento) immobile sull’attenti, sotto una  pioggerella ghiacciata,  presenziava al passaggio del convoglio.
A distanza di anni, vedendo il film “Le vite degli altri” ho poi capito il silenzio che regnava in quel vagone ferroviario. Nessuno si fidava di nessuno e la cosa migliore era tenere la bocca tappata!
Sul treno due “Vopos” (volks polizei) di frontiera mi stampigliarono sul passaporto i timbri di transito dopo avermi scrutato attentamente, qualche tempo dopo finalmente entrammo a Berlino; La stazione che mi sembrò assai piccola  era la stazione dello zoo di Berlino.
Mi trovavo nel principale luogo d’aggregazione dei giovani berlinesi, raccontato poi magistralmente dal regista Uli Edel nel film Wir Kinder vom Bahnhof Zoo, (Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino). 
Luogo d’aggregazione ma anche di frustrazioni di una gioventù che era prigioniera in una città dimezzata e circondata da tutti i lati da un regime oppressivo ed opprimente, e su cui incombeva un futuro  incerto.
La mia tappa successiva fu al “Ck Point Charlie”; così era chiamato il punto di transito fra la DDR e la zona USA di Berlino, per andarci presi la metropolitana la quale, inaspettatamente, in coincidenza di certe stazioni,  regolarmente annunciate dall’altoparlante, rallentava senza fermarsi. Ero sotto Belino Est e quelle erano le “Stazioni fantasma”. 
Emerso in superficie ed avvicinandomi al Muro, grandi cartelli avvisavano nelle principali lingue che si stava lasciando l’occidente e si stava per entrare nella DDR, in un certo senso la situazione evocava, almeno secondo il mio stato d’animo, scenari   danteschi:”Lasciate ogni speranza..”
Il Muro era improvvisamente sbucato arcigno dallo scorcio delle strade. Un senso di solitudine e di freddo mi aveva preso: come non pensare alla morte di coloro che con ogni stratagemma possibile avevano provato a superarlo lasciando in  molti casi le loro vite in tentativi falliti? 
Emblematica della efferatezza del regime comunista fu la fine del muratore diciottenne Peter Fechter, ferito dai Vopos durante un tentativo di fuga e lasciato agonizzante nella terra di nessuno sino alla morte per dissanguamento.
A ben riflettere l’assurdità anti-storica del Muro consisteva nel fatto che esso non era stato costruito per  impedire di entrare ma ad impedire l’uscita. 
Allora, per un cittadino occidentale  entrare nell’Europa orientale era di che aver paura, tale era la fama, frutto non solo di propaganda, che circondava quei regimi polizieschi, temibili sotto tutti i punti di vista; sopratutto ai miei occhi,  le cui letture giovanili erano spesso tratte dal Reader’s Digest a cui mio padre era abbonato e che poi, con una visione diciamo così prospettica, ho capito essere un formidabile strumento propagandistico smaccatamente schierato con gli americani.
Lasciati i rassicuranti  MP e la bandiera a stelle e strisce, mi inoltrai verso il punto di controllo e accesso di Berlino Est, varcando il Muro costruito dal regime di Ulbricht  per impedire ai suoi concittadini di scappare verso la libertà o più semplicemente per riunire famiglie crudelmente separate dalla guerra o migliori condizioni di vita.
Agli occidentali era consentito l’ingresso nella zona Est di Berlino,  per un massimo di 12 ore dalle otto alle venti e solo attraverso il Ck Point Charlie. Obbligatorio, inoltre, cambiare alla pari almeno  25 DM. con i deprezzatissimi DDM con cui non si comprava nulla e che nessuno accettava.
Per ottenere il rilascio del “Transitvisum” dovetti entrare in uno stretto corridoio illuminato a giorno con le pareti di specchi, probabilmente durante il transito mi sarò beccato qualche sievert da raggi-X ma alla fine del tunnel mi rilasciarono quel tagliando che vedete qua sopra.
Alle mie spalle si profilava ancora grigio e malevolo il Muro.  Di fronte a me lo spettacolo di una città che a 24 anni dalla fine della guerra era ancora fatta di case bombardate, strade appena agibili, completa assenza di negozi e vetrine. Squallore, buio  e silenzio ogni dove, interrotto raramente dal tipico rumore del fumoso e puzzolente motore due tempi delle Trabant, le automobiline “Made in DDR” che noi occidentali non avremmo voluto neanche per regalo.
Per spendere i marchi tedesco-orientali che avevo in tasca, infreddolito, entrai in un locale che pareva un bar. L’ingresso era oscurato da una pesante coperta, il luogo era caldo ma non accogliente. Avevo l’impressione che per i presenti  la guerra non fosse finita e che si sentissero sotto assedio, pronti a combattere nuovamente.  Mi stupì come intorno a me si fosse creato il vuoto, nonostante gli sguardi degli avventori che filtravano di sottecchi e venivano distolti appena io guardavo loro, sembravano interrogarmi: “Chi sei? Da dove Vieni? Perché sei vestito strano? Ma che sei matto a parlare in inglese, qua?”

La riunificazione.” (2^ Parte.)

Anche io quel giorno di novembre del 1989, ero davanti alla televisione per assistere ad un avvenimento che tutti percepivamo come storico.  I berlinesi dell’est e dell’ovest erano nuovamente uniti, si abbracciavano e baciavano stando a cavalcioni del Muro. Il regime comunista era  in dissolvimento sotto la spinta della Storia! L’atmosfera era di gioia immensa, ciò che sembrava impossibile, stava accadendo sotto i nostri occhi!
Era mio ospite, neanche farlo a posta, un amico, accompagnato dalla giovane moglie, una discreta bionda con occhi azzurri dal look decisamente straniero. La ragazza si ostinava  a portare anche d’inverno scarpe bianche col tacco altissimo che in Italia non avrebbero indossato neanche il giorno del matrimonio. I due si erano conosciuti durante una visita turistica che lui, fervente comunista, aveva fatto nella DDR.  
Grazie alle timide aperture alla democrazia e alla libertà che anche i regimi comunisti più intransigenti erano stati costretti a concedere sotto le pressioni dell’opinione pubblica, i giovani si erano frequentati e sposati. Lei aveva poi ottenuto il permesso di lasciare la DDR. 
Suo padre era un Vopo, le temibili guardie di frontiera della DDR, ”Però lui ha fatto sempre servizio sul confine polacco” teneva lei a precisare, con un certo mio imbarazzo al pensiero di ciò che il messaggio voleva intendere (fra Polonia e Germania Orientale non c’erano fughe perché entrambi i Paesi stavano nella stessa barca, perciò “Mio padre non si è macchiato di omicidi”).
La cosa strana, nell’atmosfera di eccitazione, stupore e gioia che si era creata fra noi, quella sera, di fronte alla televisione che trasmetteva scene di gente che si abbracciava, brindava o pigliava a picconate il Muro, sotto gli occhi impotenti della polizia tedesco orientale, era che sia la tedesca che il mio amico commentavano gli avvenimenti in senso negativo. 
Il loro “Piccolo mondo ” stava crollando e le espressioni di rimpianto si susseguivano: “Noi avevamo il lavoro assicurato”, “Il Partito (ovviamente quello comunista) organizzava le vacanze a tutti”, “’L’assistenza sanitaria è gratuita”. 
Poi capii. Il loro rimpianto era dovuto al fatto che prima erano una particolare coppia esempio dell’amicizia fra i “Popoli” (amore trionfa) oggetto di curiosità; ora in poi,  sarebbero stati solo marito e moglie come ce ne sono tanti, lui italiano, lei tedesca.
Tanto per dovere di cronaca, venni a sapere qualche tempo dopo che i due si erano separati. Il matrimonio non aveva funzionato. 

La storia, non finisce qui.” (3^Parte.)

Le circostanze vollero che undici anni dalla mia prima  “Visita” a Berlino Est, ormai comandante di MD 80, ricevessi una telefonata dal Capopilota:
“Domani  ti è stato assegnato  il volo Roma- Berlino, avrai l’onore di comandare il primo aereo italiano che atterra a Berlino dalla fine della guerra.”
In effetti il trattato di pace fra la Germania e le potenze vincitrici, consentiva solo alle loro linee aeree di effettuare cabotaggio ed utilizzare l’aeroporto di Tegel e Shonefeld.
I repentini mutamenti politici, avevano reso inaspettatamente possibile effettuare collegamenti anche a  compagnie aeree, come quella per cui volavo, appartenenti a nazioni “Non-vincitrici”.
Fu così che il 27 ottobre del 1990 alle 19.30 precise, posai le ruote del carrello d’atterraggio del mio MD-80 “Aosta” sulla pista dell’aeroporto Berlin-Tegel, accolti da una banda musicale e da alcune personalità municipali.  
Di quei giorni ho ancora ben presente due cose: una, la calorosa accoglienza ed il pelouche che regalarono a tutto l’equipaggio per ricordare l’evento: un orsetto simbolo della città. L’altro ricordo, l’alito pestilenziale di una anziana impiegata  est-berlinese che ci accompagnava attraverso l’aeroporto per il disbrigo delle formalità di frontiera. 
Un dubbio allora mi assalì:  costei aveva mantenuto, diciamo così, abitudini alimentari basate sul noto tubero o era in cura aiurvedica per l’ ipertensione?

Il tempo non aspetta”. (4^ Parte.)

Ventidue anni dopo esserci atterrato con il mio aereo (“mio” si fa per dire), mi sono trovato nuovamente a Berlino. Uno di quei viaggi che, almeno per me sono una boccata d’ossigeno.  In un posto, fermo più di tanto,  io non ci riesco a stare.
Mentre con mia moglie andavamo verso la Unter der linden str, la via rutilante di luci, negozi, grandi magazzini della opulenta Berlino, divenuta nuovamente capitale della ricca e riunificata Germania, mi sono imbattuto inaspettatamente nel Ck Point Charlie. 
Adesso è ridotto ad  una sorta di quinta teatrale, dove alcuni ragazzi di colore (forse nipoti di qualche G.I. dell’Alabama in libera uscita e di qualche romantica  fraulein berlinese) , vestiti da soldati americani,  si fanno fotografare a pagamento, in atteggiamenti di circostanza (a seconda dei desiderata).  In fondo in tempi di crisi, tutti i modi sono buoni per racimolare, un po’ di spiccioli.
“Quel” Ck Point Charlie, usato per una recita ad uso di turisti in cerca di memorie!
Vicino, su di un banchetto, si vendevano pezzetti di “Muro”, garantiti originali. Non potevo crederci.
Eppure là, sul confine fra BDR e DDR, erano passate spie, si erano riunite famiglie o straziato corpi di fuggitivi, forse tante fra le persone che in quel momento stavamo incrociando,  erano state protagoniste volontarie o inconsapevoli di una pagina fra le più buie della recente storia europea. Ma che serve ricordare?  Nessuno ha le mani così pulite da avere interesse a rivangare il passato.
Sapete, molti anni fa, non ci crederete, a Berlino …
Dario Romagnoli

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