“IL FUTURO APPARTIENE A CHI CREDE NELLA BELLEZZA DEI PROPRI SOGNI”.
Anna Eleanor Roosvelt
TUTTO È COMINCIATO COSÌ… !
Avevo meno di sette anni quando ho compiuto il mio primo, “lungo viaggio”. È un ricordo ormai lontano che si perde nel tempo e risale al 1953. Abitavo a Lavis, un piccolo borgo a nord di Trento e dovevo recarmi a Valternigo, il paesino di montagna dove sono nato, che si trova all’inizio della valle di Cembra. I sette chilometri che allora percorsi lungo quella strada polverosa, sono rimasti impressi in modo indelebile nella mia mente, nel mio cuore e nella mia anima.
La mia Mamma per prepararmi alla grande avventura, mi aveva fatto alzare di buon mattino. Verso le dieci, infatti, sarebbe passato a prelevarmi Erminio, il mio “angelo custode” e compagno di viaggio. Scarpette nere lucidissime, un paio di pantaloncini corti e una camicia bianca a collo abbondante, sovrastata da due grandi bretelle costituivano, per l’occasione, la mia sofisticata mise. Il mio ciuffo ribelle era stato bloccato sulla fronte, da una piccola forcina metallica e i capelli “lucidati” con un delicato tocco di brillantina Linetti. Ero bellissimo, mi sentivo padrone del mondo e attendevo, con grande impazienza, l’inizio di quella meravigliosa fuga verso l’ignoto. Le ultime raccomandazioni, ancora una piccola sistemata ai capelli e via. Ero pronto per la partenza! Scendendo le scale la Mamma teneva stretta la mia mano e tentava, con tutta la sua dolcezza, di attenuare la mia incontenibile gioia. Uscendo da casa, però, una grande sorpresa. Ricordo d’avere posato le dita della mano destra sulle labbra e di avere rivolto uno sguardo impaurito e attonito all’enorme bue bianco, fermo di fronte al portone di casa. Mi aspettavo di vedere un’automobile, una fiammante Balilla ma, davanti a me, c’era solo un carro di legno trainato da un bue.
Sul piano di carico c’erano alcune cassette vuote, un sacco di fieno, una vecchia coperta e due damigiane impagliate a metà, l’altra metà, forse, l’avevano rosicchiata i topi in qualche buia e umida cantina. Erminio si era accorto della mia grande sorpresa e mi aveva rivolto alcune parole intese a infondermi coraggio e fiducia. In realtà il mio problema, non era lui ma l’enorme, maestoso bue bianco che mi guardava con i suoi grandi occhi umidi e muoveva la bocca macinando ancora i residui della sua “laboriosa lupinella”. Una coperta militare grigio-verde ben ripiegata, era stata distesa sul “confortevole” posto a cassetta a me riservato per quel mio primo, lungo e indimenticabile viaggio: sette chilometri!
Una carezza e un bacio della Mamma, il tempo per le ultime raccomandazioni e mi ritrovo seduto sul carro a fianco del buon Erminio. Il bue si gira e ci guarda, sembra rassegnato e inizia il suo lento e tranquillo cammino. Anch’io mi giro, raccolgo ancora il saluto della Mamma e dopo la prima curva, inizia una lunga salita. La strada è sterrata, ben tenuta. Non ci sono automobili. Erminio legge ancora la delusione nei miei occhi, non parla ma mi regala un sorriso. Io prendo coraggio. L’incedere lento e maestoso del bue comincia a piacermi. Seguo la sua goffa, dondolante andatura e ammiro le sue lunghe e possenti corna. Mi giro ancora ma la mia casa non si vede più. Erminio nel frattempo, ha rotto il silenzio lanciando al bue un’imprecazione in una lingua che non conosco e che non capisco ma vedo che il povero animale aumenta leggermente l’andatura. La salita è molto lunga, le curve si susseguono e non ho più la cognizione né del tempo né della distanza. Con fragore quasi sinistro, la ghiaia si frantuma sotto i grossi cerchioni di ferro delle ruote, mentre il carro continua ad avanzare lentamente lungo la polverosa strada. Dopo i primi tornanti, ricompare sotto di noi la cittadina di Lavis e riesco a intravedere ancora la mia casa. Sono felice ed Erminio mi sorride. Il bue nel frattempo, ha ripreso la sua normale andatura e sembra non sentire più nemmeno i richiami del suo padrone. La salita sta per terminare e sotto di noi si vede già la valle in cui sonnecchia il torrente Avisio. Con il suo scorrere tortuoso e lento, esso accarezza le profumate plaghe dei vigneti di questa severa Terra, strappata a fatica alla Montagna e consegnata alle braccia forti e laboriose di un’Agricoltura tenace ed eroica. Non so che ore siano, nemmeno Erminio ha l’orologio ma il sole è già alto nel cielo. In una dimensione così tranquilla e così serena non serve misurare il tempo, basta guardare il sole, ascoltare il vento, seguire le nuvole e vivere la vita scandita solo dalle albe, dai tramonti e dal suono delle campane. Dietro di noi in lontananza, le trombe di un clacson gracchiante e asfittico, annunciano l’incedere sofferto di una corriera. La scia di polvere e di fumo nero è inconfondibile ed Erminio si affretta a fare accostare il bue nella rientranza di una piccola piazzola di sosta a lato della strada. Siamo quasi sull’orlo del precipizio. Il torrente Avisio scorre lento e sornione circa duecento metri sotto di noi. Io non oso guardare, ho troppa paura. Erminio non mi abbandona, mi prende in braccio, mi posa sulla strada, e tiene ben stretta la mia mano. L’autista della corriera blu ci saluta e dal tetto dell’automezzo, fra i pacchi e qualche valigia di cartone, alcune galline in una gabbia di legno, ci guardano attonite e sconsolate. La scia di fumo nero si allontana lentamente. Il bue non si è spaventato ma ansima ed è sudato. Erminio sa che qualche centinaio di metri più avanti, all’ombra di alcuni castagni secolari, c’è una zona di sosta più sicura. Egli si avvicina al muso del bue, lo accarezza sul collo e gli sussurra alcune parole. L’animale sembra capire, risponde alle carezze con un lento movimento della testa e con pacata rassegnazione, si avvia nuovamente. Le grandi chiome dei castagni s’intravedono in lontananza e la lunga salita è ormai terminata. Una breve sosta per il pranzo avrebbe consentito anche al bue di riposarsi. Erminio blocca le ruote posteriori del carro con due grosse pietre, solleva faticosamente il giogo, libera il bue e lo conduce a bere nel vicino ruscello. Trattenendo l’animale per la cavezza, poi, anche Erminio si china e con il palmo della mano, raccoglie dell’acqua per bere e per bagnarsi la fronte. Allora si poteva bere anche l’acqua dei ruscelli. Il bue è saldamente assicurato alla base di un grande castagno. Erminio gli porta del fieno, lo copre con la vecchia coperta e lo accarezza ancora. Io sono sempre seduto sul carro, non ho voglia di mangiare, ma comincio a rosicchiare una mela che ho preso dal cestino che la Mamma mi aveva preparato con tanta cura. Erminio mi guarda con l’atteggiamento di chi t’invita a mangiare qualcosa. Io preferisco, però, soffermarmi a fissare e a studiare la sua figura. Egli preleva da una cassetta di legno un contenitore di alluminio che ha tre piccoli ripiani di diversa altezza e che contengono ciascuno, qualcosa da mangiare. È il suo pranzo. Nel contenitore più grande c’è del minestrone, nel secondo ci sono delle patate e nel terzo c’è un piccolo pezzo di formaggio. Il volto di Erminio è segnato dal sole, dal vento e dalla fatica per il duro lavoro nei campi. Ha forse meno di quarant’anni. Indossa un paio di pantaloni di velluto marrone e una camicia a scacchi colorati dalla quale, anche se siamo quasi in estate, s’intravede una pesante maglia di lana. Gli scarponi, fatti a mano, lucidati e unti con la sugna, sono di cuoio duro e compatto: devono durare una vita! Il suo grande grembiule blu ha uno dei due lembi inferiori ripiegato verso l’alto ed è agganciato alla cintura. Erminio s’accorge che io lo sto guardando, si rivolge a me con un sorriso e mi porge scherzosamente la sua piccola bottiglia di vino abbondantemente “allungato” con l’acqua. S’è alzato molto presto, è stanco, si siede sul sacco di fieno, posa la schiena al tronco del grande castagno dov’è legato anche il bue e socchiude gli occhi. Sono solo, la strada è deserta e il silenzio è rotto solamente dal frinire metallico delle prime cicale che annunciano l’estate. Mi avvicino al bue perché voglio osservarlo meglio. Lui gira la sua testa verso di me e mi guarda. I suoi grandi occhi sono circondati da uno sciame di fastidiosissime mosche e anche qualche avido tafano, tenacemente aggrappato alla pelle del suo collo, gli sta succhiando il sangue. Lui sopporta pazientemente e si limita a intervenire con degli inefficaci e inutili colpi di coda. Non si lamenta, soffre in silenzio. Mi avvicino a una pianta di nocciolo selvatico e spezzo un sottile, lungo ramo con il quale tento di cacciare le fastidiose mosche dagli occhi del mansueto animale. La battaglia è impari e mosche e tafani ritornano, inesorabilmente, a tormentare la povera bestia. Il bue però, volgendo il muso verso di me, sembra comunque ringraziarmi. Anche le cicale hanno smesso di frinire. Il silenzio, ora è totale. D’improvviso percepisco il delicato battito delle ali di una coloratissima farfalla che sfila velocemente all’altezza del mio volto. La inseguo con gli occhi, è bellissima! Dietro di lei altre due farfalle della stessa specie si rincorrono all’ombra del grande castagno e, insieme, iniziano una soavissima e delicata danza, forse in onore del paziente bue, ora assopito. Le farfalle puntano anche verso di me in fila indiana e sembrano voler inseguire un bizzarro tracciato creato, forse, da una scintilla di follia. Una di loro rompe la fila e si posa sul ramo di nocciolo che io stringo ancora nella mia mano. Mi guarda e sembra quasi voglia fissare e studiare più attentamente, i miei lineamenti. Smetto di respirare e ammiro la sua forma e gli splendidi colori delle sue ali. Lei alza le zampette anteriori, le strofina delicatamente fra loro e continua a fissarmi con attenzione. È un momento meraviglioso, quasi magico! La danza ricomincia e le tre farfalle si rincorrono ancora nell’aria limpida e tranquilla intrecciando altri bizzarri disegni che rispondono, probabilmente, a un rituale ignoto e comunque a me incomprensibile. In fila indiana puntano ancora verso il mio volto, quasi lo sfiorano con le ali e si allontanano. Le cicale ricominciano a frinire.
Da quel mio primo, “lungo viaggio”, sono passati quasi settant’anni. Quei castagni secolari non ci sono più ma, ogni volta che passo di lì, rivedo Erminio che mi sorride, il suo maestoso bue bianco, il carro di legno e le tre splendide, coloratissime farfalle che ancora si rincorrono felici. Nel frattempo, ho solcato i cieli del mondo…per alcuni milioni di chilometri. Quando si dice il Destino!
Aldo Rossi
Ho pubblicato su FaceBook questo articolo e molti Amici mi hanno lasciato un gradito commento. Questa la mia risposta in data 1 febbraio 2022:
Care Amiche e cari Amici, voglio ringraziarVi per le Vostre parole di apprezzamento. Trasferire ad altri una bella emozione è pane per l’Anima. Ho spesso ricordato, anche a me stesso, che ho avuto, come molti di Voi, la grande fortuna di svolgere il “lavoro” più bello al mondo. Chiamarlo lavoro mi imbarazza un pochino, preferirei parlare di “artigianato delle emozioni” e specialmente ora, che ho in tasca un biglietto MUST-GO (OPEN), mi piace riviverle nei ricordi più belli. Vi abbraccio tutti e…alla prossima emozione. Aldo Rossi