BASSO MEDIOEVO – LA CACCIA ALLE STREGHE NELLE VALLI DELL’OSSOLA: LE DONNE DI BACENO E CROVEO.

Di Rosella Reali
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Tra il 1545 e il 1563 si svolse a Trento, con grande austerità, il Concilio che diede vita alla Controriforma. Fu la risposta della chiesa di Roma alle tesi di Martin Lutero, affisse presumibilmente sulla cattedrale di Wittenberg nel 1517, che accusavano, in estrema sintesi, di corruzione e dissolutezza l’apparato ecclesiastico.
Il Concilio di Trento doveva dare nuova vita e nuovo vigore alla chiesa. I dettami stabiliti costituivano una serie di regole ferree sia per il clero, che aveva l’importante compito di diffondere la fede cattolica anche nelle regioni più remote, che per il popolo, riconosciuto capace di scegliere liberamente fra bene e male e quindi di decidere se abbracciare o no l’ortodossia. Questo fu il clima di generale cambiamento che caratterizzò il periodo che andremo a considerare.
Teatro della vicenda fu la valle Antigorio, luogo dalla bellezza selvaggia, popolata da gente semplice, dedita alla pastorizia, all’agricoltura e agli scambi commerciali.


Grazie alla sua vicinanza con la Svizzera, la valle Antigorio, laterale della val d’Ossola, fra il 1575 e il 1620, fu visitata dagli inquisitori che intendevano riportare in questa terra l’ordine e diffondere la parola di Dio.
In queste zone, colonizzate anche da popolazioni Walser, sopravvivevano antichi culti legati alla terra e alla natura, che erano rimasti incontaminati rispetto alla diffusione della religione cattolica.
Qui il prete e la levatrice, depositaria di un antico sapere, correvano insieme al capezzale della partoriente, portando a proprio modo il sollievo dell’anima e del corpo. Una convivenza che durava da tempo, sotto gli occhi ignari della chiesa di Roma, ma che permetteva lo scorrere sereno della vita, senza che il vecchio culto e quello nuovo entrassero in conflitto.
La difficile penetrazione della nuova fede era causata, oltre che dalla naturale reticenza al cambiamento, proprio delle popolazioni che vivono lunghi periodi in isolamento per cause climatiche e morfologiche, anche dalla difficile comprensione della lingua usata durante le funzioni liturgiche. Le novità della Controriforma non erano ancora giunte in valle Antigorio.
La caccia alle streghe in questi luoghi iniziò intorno al 1570, ma senza una vera spinta da parte della chiesa.
Il periodo fu caratterizzato dal susseguirsi di numerosi vescovi nella diocesi di Novara, fatto che causò alti e bassi nella repressione degli antichi culti, accentuati dagli scontri sotterranei fra tribunale dell’inquisizione e tribunale vescovile.
Il motivo del contendere erano sia la giurisdizione delle anime del territorio, che le ragioni economiche legate alla confisca dei beni dei condannati, al pagamento delle elevate cauzioni richieste per ammorbidire le pene e alle spese processuali.


Mentre nella zona di Novara i roghi erano pressoché cessati, la persecuzione nelle valli ebbe inizio proprio in quegli anni.
Fu così che nel 1575 arrivarono, due giovani inquisitori domenicani, fra Alberto e fra Domenico, per cercare in questa valle alpina tracce di eresia.
Si trovarono ad avere a che fare con tutt’altra questione.
Si imbatterono in donne abituate a maneggiare e trasformare le erbe, a preparare unguenti e pomate in grado di lenire il dolore, che conoscevano parole di riti antichi, definiti pagani, che nulla avevano a che fare con la religione cattolica. Si tramandavano l’antico sapere di madre in figlia, mantenendo vivo il ricordo delle loro origini. Ma chi erano queste donne? Medichesse? Herbarie? Guaritrici? Sacerdotesse? O forse streghe?
Con l’aiuto del vicario di Baceno, importante centro della valle, iniziarono un’indagine ispettiva, girando fra la popolazione. Volevano sapere la verità.
Non avendo ottenuto alcuna informazione, con molta probabilità sul portone della chiesa dedicata a San Gaudenzio a Baceno, venne affissa una comunicazione che riportava queste parole: «…noi vicario del vescovo e del giudice, prescriviamo e ordiniamo quanto segue: si conti fino a circa dodici giorni a partire da oggi. Allo scadere di questi il giudice secolare manderà un ordine affinché ci venga rivelato se qualcuno abbia saputo, visto o sentito dell’esistenza di una persona eretica o di una strega, per diceria o sospetto, in particolare se si tratta di persona che pratichi cose tali da nuocere agli uomini, alle bestie o ai frutti della terra. Se costui non obbedirà ai nostri ordini e non testimonierà entro il termine stabilito sappia che sarà trafitto dalla spada della scomunica…»
Il terrore si diffuse velocemente.
Bastava una parola sbagliata per cambiare la vita di qualcuno, per rovinarla per sempre. I frati avevano ottenuto il loro primo scopo: instaurare un generale clima di sospetto e paura. Dopo alcuni giorni decisero di aver raccolto sufficienti informazioni a carico di 20 donne di Baceno, Crodo e Croveo, altri due piccoli abitati della valle. Secondo la loro interpretazione, le prove a carico delle accusate erano schiaccianti, non lasciavano ombra di dubbio alcuno.
Si recarono a Novara e lì riunirono il tribunale della Curia, sotto il diretto controllo del vescovo, ed il tribunale della Santa Inquisizione, gestito dai frati domenicani.
Le carceri novaresi nel XVI secolo era quattro: quelle del comune, all’estremità sud-est del broletto, la stallazza o malastalla, una specie di magazzino posto sotto la camera della tortura nel palazzo del podestà, le carceri della Santa Inquisizione Romana, nei locali del convento domenicano di san Pietro Martire e le carceri episcopali, nei sotterranei dell’attuale curia novarese.


Iniziò un processo ritenuto giusto e, vista la loro inconfutabile colpevolezza, le accusate furono sottoposte alla sola punizione che potevano meritare: la tortura.
Cosa accadde dopo? Dieci di loro furono rilasciate, con l’obbligo degli arresti domiciliari. Sette furono riconosciute innocenti, vittime delle calunnie dei compaesani. Una fu condannata a restare in carcere fino alla morte. Gaudenzia Fogletta di Rivasco e Giovanna, detta la Fiora, di Croveo, furono condannate al rogo.
La sentenza fu eseguita dal braccio secolare, cioè dall’autorità civile, perché “Ecclesia non novit sanguinem”, la chiesa non sparge sangue, ma emette le sentenze. Sulla vicenda rimangono dei punti oscuri.
Ci si potrebbe domandare come mai alcune di loro furono rilasciate. C’è chi ritiene che il loro destino fu benevolo grazie al pagamento di ingenti somme da parte delle famiglie perché fosse loro risparmiata la vita, denaro che servì per la costruzione della chiesa di san Pietro Martire a Novara. Uno dei due solerti frati, Domenico, divenne personaggio di spicco del mondo ecclesiastico in quegli anni.
Delfino del cardinale Antonio Ghisleri, padre della Controriforma e successivamente papa con il nome di Pio V, fra Domenico Buelli divenne padre priore dei frati domenicani di Novara ed inquisitore generale del sant’Uffizio in città.
Si distinse per il fervore con cui sosteneva le proprie tesi, per l’efferatezza delle azioni che compiva nella ricerca del segno del male, per la crudeltà che dimostrava durante la tortura, soprattutto se la vittima era donna.
In una parola, sadico.
Preso dal suo ruolo di giustiziere contro la stregoneria, nel 1585 fece iniziare i lavori di ampliamento della sede inquisitoriale a Novara. Non pago della grandiosità del progetto in atto, decise di far costruire anche una nuova sede del Sant’Uffizio e due carceri.
Fra il 1591 e il 1592, fra Domenico torturò con grande piacere personale un numero imprecisato di donne provenienti dalla valle Antigorio. Confessarono tutte, ma nessuna fu condannata al rogo purificatore in quanto il vescovo di Novara, Pietro Ponzone, ritenne tutti i processi illegittimi non essendosi svolti davanti ai due rami del tribunale ecclesiastico.
Nel 1593 fu eletto vescovo di Novara Carlo Bascapè, grande amico e protetto di Carlo Borromeo, anche lui tristemente attivo nella caccia alle donne accusate di stregoneria.
I rapporti fra il Buelli e il Bascapè furono da subito tesi, per la differente visione nell’utilizzo della tortura.
Il vescovo fu più cauto verso le donne della valle Antigorio, non perché il suo animo fosse giusto ed equo, ma perché temeva di inimicarsi la popolazione, fonte di una certa ricchezza. In effetti fece largo uso della tortura verso gli ecclesiastici ritenuti eretici.


Infatti, durante le sue visite in valle, non ancora vescovo, aveva riscontrato una certa dissolutezza nel clero, ritenuto ignorante e scostumato. Basta pensare al caso del curato di Crodo, Domenico Zuffo, che fra il XVI e il XVII secolo fu processato quattro volte per comportamenti violenti e vita dissoluta.
Durante il vescovato del Bascapè, ritenuto recidivo, fu processato e arrestato per concubinato, con l’aggravante di aver vissuto nella casa parrocchiale con la compagna e i figli nati dalla loro illegittima relazione.
Nel 1601 finirono sotto accusa degli inquisitori due uomini: Domenico Pignolo, formaggiaio e pastore di Croveo, accusato di eresia perché visse per 15 anni in Svizzera per lavoro, senza mai assistere ad una funzione religiosa e Giovanni Chiapino, commerciante di Baceno, accusato anch’egli di eresia per aver dato lavoro ad una persona che si era avvicinata al mondo luterano.
Il Buelli sfoggiò tutta la sua crudeltà, tanto che ottenne una piena confessione dai due e otto nuovi nomi, tra pastori, commercianti e trafficanti di bestiame.
Come finì il processo non lo sappiamo con certezza.
Dai documenti a noi arrivati si evince però che gli accusati furono sottoposti alla tortura della corda e al curlo, per provocare la slogatura delle braccia.
Nel 1603 fra Domenico Buelli morì, lasciando il posto a fra Gregorio Manini da Gozzano, che si rivelò molto simile al suo predecessore nell’accanimento contro le donne. Ossessionato dalla castità, era solito infierire sulle accusate scrivendo sul loro corpo, utilizzando la tortura psicologica come mezzo per ottenere il proprio scopo.
Nel 1605 a finire nelle mani del Manini fu Maria detta Gianola, rimasta invischiata nella faida fra Baceno, Croveo e altri paesi della valle. La donna non venne torturata, ma confessò spontaneamente di essere salita sul monte Cervandone, in groppa ad un demone e lì di aver consumato un rapporto carnale con lui. Trattenuta per un mese e mezzo, venne rilasciata «…talmente malconcia da parere una morta…».
Nel frattempo in valle Antigorio le liti intestine tra famiglie avevamo compromesso la situazione.
Nel 1609 si presentò ai curati di Baceno una ragazza, Elisabetta del fu Antonio de Giuli, detta la bastarda. Orfana dei genitori, Elisabetta fu allevata da una donna che la prese con sé. Viveva in condizioni di estrema povertà. Davanti ai preti raccontò di essere stata costretta a partecipare, da quattro donne, ad un sabba, «… il gioco dei monti di Devero…».
Le donne, compresa colei che l’aveva allevata, furono subito arrestate e condotte in carcere a Crodo.
Elisabetta cominciò a parlare.


Raccontò delle orge, dei rapporti sodomitici, del bacio al “mostazzo del demonio”, del cannibalismo neonatale. Non rivelò mai dove si trovasse il luogo del ritrovo, il monte Cervandone.
Una delle donne arrestate era Caterina del Franzino della Preia, detta la Mandarina, torturata 35 anni prima dal Buelli mentre era incinta. Perse il bambino.
Nonostante la paura per ciò che la aspettava, interrogata anche lei sul luogo del ritrovo disse: «…il Cervandone? Io non so se sia una montagna oppure pianura…».
Un’altra donna portata alle carceri di Crodo fu Comina Zinetta detta la Taramona. Anche lei, come la Mandarina, venne inquisita in precedenza. Sottoposta a nuovo interrogatorio, ammise di conoscere il Cervandone ma di non saperlo localizzare con esattezza. La poveretta non uscì mai dalle carceri novaresi, morì là dentro per le privazioni a cui fu sottoposta.
Le altre due accusate dalla bastarda furono Domenica vedova di Antonio di Baceno, detta la Galeazza e Maria detta la Gianola, anche lei per la seconda volta sotto accusa. Quest’ultima ammise di aver partecipato al sabba e di essersi congiunta con il demonio, ma non rispose alle domande sul Cervandone come luogo di ritrovo.
La Gianola accusò a sua volta altre donne, tra cui Domenica detta la Brenesca.
Nel giugno 1610, si procedette con nuovi arresti. Interrogata, Giacomina, moglie di Giovanni Patucione di Croveo, si fece sfuggire una frase sul monte Cervandone: «… io sono donna per bene! Non sono andata lassù a vedere quelle cose! Ma io non so dire altro…».
Le vicende inquisitoriali della valle Antigorio si fermarono alla fine del 1611.
Al momento non abbiamo altre informazioni, vista l’impossibilità di accedere agli archivi.
Sappiamo con certezza che la paura regnò incontrastata in quegli anni anche in valle Antigorio. Vorrei ricordare coloro che perirono durante queste vicende, vittime inconsapevoli di un meccanismo che la chiesa aveva messo in moto e che solo il tempo ha saputo fermare: Domenica vedova di Antonio da Baceno detta Galeazza, Domenica vedova di Domenico della Beula detta Brenesca, Caterina moglie di Giovannetto Bianchino della Prea, Giovanna moglie di Giovanni Rigotto, Domenica moglie di Domenico Girardo detta Gioia, Margherita vedova di Giacomo del Rigo, Giacomina moglie di Giovanni Patuscione, Domenica vedova di Bernardino Frassetto, Elisabetta del rigo moglie di Guglielmo Buscetto, Elisabetta de Giuli detta la Bastarda, Caterina moglie di Nicola della Balmicia, Caterina del Franzino della Preia detta la Mandarina, Caterina Gattona vedova di Domenico di Crodo, Maria moglie di Giacomo Musa, Domenica detta Coscietta del fu Antonio di Guenzo, Domenica Pedaglia, vedova di Domenico, Caterina vedova di Giacomo Augustinetto, Domenica vedova di Giovanni Ayramo, Francesco Camoscetto, Giovanni Patuscione, Gaudenzia Fogletta, Giovanna detta la Fiora, Giovanni Chiapino, Domenico Pignolo, Antonio Minoia, Antonio d’Autino, Lorenzo Cerrone, Giovanni Nusa, Giacomo Dlusetto, Bernardino Ofrino, Giacomo Francione.
La caccia alle streghe continuò intanto in tutta Europa senza sosta.

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